Dante e il sestiere dello scandalo, San Pier Maggiore - Firenze

Corso Donati - Literary, collegamento

19-la-statua-di-dante-in-piazzasanta-croce

Collegamento Literary 30 - 11

Corso Donati, il nemico più odiato da Dante

Appuntamento di domenica 21 novembre, a piazza della Repubblica, alla colonna dell’Abbondanza dove, come abbiamo visto la volta precedente, s’incontrano il cardine e il decumano dell’antico impianto romano della città. Il gruppo si è riunito anche questa volta online, o in video conferenza, per i rischi legati alla pandemia.

Raffaello ha lanciato una bella idea nei giorni precedenti, quella di prevedere di muoverci, quando sarà possibile porre il progetto in pratica, con le biciclette, considerando che la passeggiata prevista è di circa nove chilometri: da piazza della Repubblica all’arco di San Pierino per proseguire fino alla Chiesa di San Salvi (rione di Coverciano) e ritornare poi verso l’Arno, alla Torre della Zecca Vecchia. I mezzi sono i più vari, biciclette da donna e da uomo, monopattini, tandem, biciclette elettriche, biciclette da bambini, naturalmente viaggiando con la fantasia.

Questa volta si sono uniti a noi altri due amici, di origine albanese, Iariam Aizitel, donna di grande cultura, e Odraccir, persona curiosa e bizzarra. Ci hanno salutato dal video: “Noi verremo col monopattino. La vostra è una bella avventura, ci fa piacere entrare nella squadra.” Iariam Aizitel ha fatto subito sfoggio delle sue conoscenze: “Il percorso di oggi è fascinoso, con la sosta davanti a sei passaggi – o lapidi - della Divina Commedia e con l’incontro con un personaggio diabolico come Corso Donati, feroce nemico di Dante.” Renato ha tenuto a dirci che lungo il percorso ci sarà l’incontro con Forese Donati, fratello di Corso e grande amico di Dante e che lui ci ha preparato una sorpresa, a proposito dei trascorsi giovanili dei due amici.

Siamo partiti da via del Corso, dall’incrocio con via Calzaioli, all’ingresso del sestiere di San Piero, il sestiere di Dante, come abbiamo già detto, zona dall’impronta medievale, torri, case-torri, vicoli, volte, viuzzi, rientri. E’ chiara l’originaria fortificazione delle case, dall’apparato dei blocchi di pietra tagliati alla grossa, piccole aperture nelle muraglie, per le finestre e le porte, fori per le travi pontaie; fra i primi incontri, la Torre dei Donati, la Torre dei Ghiberti. Nell’intricata tessitura urbana, si apre da via del Corso, sulla destra, il passaggio alla piazzetta dei Donati, nella quale si fronteggiavano, gomito a gomito, le case della famiglia dei Donati e della famiglia dei Cerchi, a capo, rispettivamente, alla fine del Duecento, del partito dei Neri e del partito dei Bianchi. In questo spazio, ci sembra ancora di avvertire l’eco sanguinoso degli scontri, che ha portato al bando irrevocabile, rivolto a Dante di lasciare la città e di andare in esilio. L’antico “vicolo dello scandalo” è ancora là a testimoniare del vano tentativo delle Autorità di dividere, con la costruzione del vicolo, le due fazioni. E rimangono per sempre le parole di Ciacco: “Dopo lunga tencione,/ Verranno al sangue, e la parte selvaggia / Caccerà l’altra con molta offensione.” Inf. VI, 64-66.

Airam Aizitel ci ha fatto notare come le lapidi presenti, con i versi della Commedia, fanno ancora respirare l’atmosfera di odio di una volta. Sul palazzo al n. 18 l’invettiva dantesca contro Filippo Argentieri.

“Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”

E ‘l fiorentino spirito bizzarro

in sé medesimo si volvea co’ denti.”

Inf. VIII , 61-63

Sappiamo che Filippo Argenti, uomo ricco, potente, iroso e stizzoso, si oppose sempre al ritorno di Dante dall’esilio. Era imparentato con la famiglia degli Adimari; faceva ferrare con l’argento gli zoccoli del suo cavallo, da qui il soprannome di “Argenti”. In questo canto sorprende il modo aspro di Dante nel raccontare l’episodio dell’incontro con Filippo Argenti e l’odio che il poeta manifesta nei suoi confronti. La ferocia di personaggio-attore della sua Commedia difficilmente raggiungerà un’evidenza così netta. “I primi sette canti dell’Inferno sono apparsi canti della pietà , della commozione o della paura – ha osserva Airam Aizitel, con sagacia - ora l’ira di Dante si mostra in una maniera nuova, c’è un atteggiamento diverso, espresso in maniera tagliente, si direbbe feroce, dello strazio di Filippo Argenti, colto nel gesto furioso della sua rabbia “in sé medesimo si volvea co’ denti” (per la rabbia mordeva se stesso)”.

Poco lontano, in via dei Tavolini, ancora una lapide dai versi di fuoco.

Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?”

Se tu non vieni a crescer la vendetta

Di Mont’Aperti, perché mi moleste?”

“… un altro gridò: “Che hai tu, Bocca?

Non ti basta sonar con le mascelle,

Se tu non latri? Qual diavol ti tocca?”

Inf. XXXII, 79-81 e 106-108

Bocca degli Abati fu traditore nella più dura battaglia sostenuta da Firenze in tutta la sua storia: la battaglia di Montaperti combattuta nel 1260, sul fiume Arbia, vicino a Siena. Tagliò la mano a Iacopo Nacca dei Pazzi che portava la bandiera della cavalleria fiorentina e provocò la rotta delle milizie guelfe. Dante lo pone nella zona di Antenora, nel IX Cerchio dell’Inferno, dove, immersi nel ghiaccio, sono puniti i traditori della patria.

La Divina Commedia è la figurazione del male della terra, che qualcuno verrà a sanare. A questo punto del nostro incontro-video, Odraccir, ci ha stupiti, ha tirato fuori il meglio di sè: “La Commedia va intesa come un grido di riscossa dalla anarchia, dalla cupidigia, dalla violenza. È una vera e propria denuncia, di ribellione da una condizione di disperata esistenza. Leggendo questi ultimi passi della Commedia, emerge come il fallimento del Cristianesimo medievale, la constatazione di una condizione di errore e di delitto in cui tutti sono immersi. Non a caso è posto al fondo dell’Inferno il peccato della violenza e del tradimento. La guerra, la mancanza dell’Impero, la sete di denaro, l’egoismo che faceva anche della famiglia un covo di vendette e di crudeltà, erano alle radici del male”. Odraccir si è meritato un appaluso da parte di tutti noi e si è visto dal video la sua faccia molto compiaciuta: “In un’altra occasione dobbiamo fare un dibattito, fra noi, su le somiglianze fra l’epoca di Dante e la nostra.”

A questo punto è apparso naturale fare alcuni passi in avanti per via del Corso, per incontrare la figura di Corso Donati, l’acerrimo nemico di Dante e i versi di fuoco a lui dedicati, incisi sulla lapide di marmo posta proprio sulla torre della famiglia dei Donati:

… Il loco, u’ fui a viver posto,

Di giorno in giorno più di ben si spolpa,

E a trista ruina par disposto.”

“Or va’;” diss’ei: “ché quei che più n’ha colpa,

Vegg’io a coda d’una bestia tratto

Invèr la valle ove mai non si scolpa.

Purg. XXIV, 79-84

Le parole sono di Forese Donati, amico di Dante, con il quale aveva gareggiato in prove di sonetti scherzosi e satirici. L’amico predice la tragica morte del fratello Corso, capo dei Neri. Elisa ci ha parlato del personaggio, in maniera incisiva, come ammaliata da questo protagonista del male: “Corso Donati, detto il Barone, cugino di Gemma Donati, fu descritto nella Cronica di Dino Compagni come “uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano”, passato alla storia per crudeltà, ambizione e mancanza di scrupoli. Di bella figura, abile oratore attirava dalla sua parte il popolo, arrivava a intimidire gli avversari con la violenza, a piegare giudici e governanti anche con la corruzione. Combatté a Campaldino al comando della riserva della cavalleria e il suo intervento nella battaglia, fu decisivo per la vittoria. Nello scontro fra la fazione dei Neri e dei Bianchi, la spregiudicatezza di Corso, gli episodi di violenza, sono rimasti memorabili. Anche dopo la sconfitta dei Bianchi – e l’esilio di Dante – continuarono le violenze dei Neri nella città e l’arroganza di Corso riprese a manifestarsi in vari episodi, fino a quando si arrivò all’ottobre del 1308: una coalizione di cittadini si schierò contro di lui. Corso, in un primo momento, si asserragliò nelle torri dei Donati, assediate dal popolo, con i suoi ultimi fidi. “Messer Corso per paura di venir alle mani de’ suoi nemici e d’esser giustiziato dal popolo”,

fuggì di tetto in tetto, di torre in torre, arrivò alla piazza di San Pier Maggiore dove si trovava il complesso della celebre chiesa e del convento delle Benedettine, per lasciare la città dalla porta di San Piero.

Airam Aizitel ha detto, a questo punto: “Merita ricordare che in questo convento avveniva da tempi remoti il cosiddetto “matrimonio del Vescovo”, con il quale il vescovo di nuova nomina veniva accolto dalla badessa di San Piero con un “matrimonio mistico” a simboleggiare l’unione della chiesa fiorentina con il nuovo pastore, che entrava nella città da Oriente, dalla direzione di Gerusalemme, il luogo della rinascita.” Odraccir ha ribattuto subito: “È da tener conto, ancora, che Dante non guardava in faccia nessuno, pose uno dei vescovi che aveva conosciuto in gioventù, Andrea dei Mozzi (vescovo di Firenze dal 1287 al 1296) all’Inferno, nel cerchio dei sodomiti («… e vedervi, / ‘avessi avuto di mal tigna brama, / colui potei che dal servo de’ servi/ fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione, / dove lasciò li mal protesi nervi», Inf. XIV, versi 110-11).

Elisa ha ripreso la parola per parlare del gran balzo di Corso sul cavallo che uno dei suoi seguaci aveva portato nella piazza, la fuga, il rimbombo degli zoccoli nel passaggio sotto la volta della Porta di San Piero, il disperato incitamento con gli sproni ai fianchi della bestia, per il Borgo dei Pinti. Poco dopo, dietro di lui apparve a breve distanza, un drappello di soldati catalani a cavallo, armati di lance, al servizio del Comune.

Mi stupisco per le immagini che appaiono dal video. I due ragazzi, Claudio e Anna, si sono messi in capo, a mo’ di elmo uno scolapasta e agitano dei mestoli di legno, come delle spade. Odraccir non può essere da meno, ha in testa una specie di tegame e in mano il manico di una scopa, che muove in maniera minacciosa. Tutti gli altri amici si stanno agitando, in qualche modo. Chissà cosa succederà quando, sarà possibile uscire fuori e saremo tutti schierati sulle biciclette.

Elisa, indifferente, ha continuato il racconto della drammatica fuga di Corso per i campi della Piagentina, per il sentiero del bosco verso San Salvi, i soldati ormai gli sono addosso, mentre è lancinante il dolore, per la gotta di cui soffre, alle mani e ai piedi. Ecco fra gli alberi s’intravede il campanile, appare la piazza della chiesa di San Salvi: Corso scivola giù dal cavallo, è nella polvere della piazza, lo raggiunge alla gola la lancia scagliata da uno dei cavalieri catalani.

A fianco della chiesa, sotto la loggia, la lapide con i versi di Dante che riprendono i versi dell’altra lapide che abbiamo incontrato in via del Corso, sulla torre dei Donati.

“Or va’;” diss’ei: “ché quei che più n’ha colpa,

Vegg’io a coda d’una bestia tratto

Invèr la valle ove mai non si scolpa.

La bestia ad ogni passo va più ratto,

crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,

e lascia il corpo vilmente disfatto.”

Purg. XXIV, 82-87

Abbiamo poi proseguito da San Salvi verso l’Arno, dirigendoci verso

il centro della città lungo la riva destra, per arrivare a piazza Piave, alla Torre della Zecca Vecchia, dove è posta la targa con i versi dedicati al fiume:

“Per mezza Toscana si spazia

Un fiumicel che nasce in Falterona,

E cento miglia di corso nol sazia.”

Purg. XIV, 16-18

Sono le parole con cui Dante risponde a Guido del Duca, che gli ha chiesto chi egli sia e da dove venga. Definisce con una perifrasi la regione, la Toscana, da cui proviene, attraversata da un fiumicel che cento di miglia di corso nol sazia. È stato osservato, giustamente, che questa ultima espressione sembra riferirsi “all’insaziabile” sete di potere dei Fiorentini e alla loro spietata politica d’espansione.

Renato al momento del saluto, ha palesato la sua arte nelle gare poetiche in ottava rima e, come sorpresa, ha recitato con voce squillante i primi due sonetti della memorabile tenzone fra Dante e Forese Donati:

A. Dante a Forese

Chi udisse tossir la mal fatata

moglie di Bicci vocato Forese,

potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata

ove si fa ’l cristallo ’n quel paese.

Di mezzo agosto la truovi infreddata;

or sappi che de’ far d’ogn’altro mese!

E no·lle val perché dorma calzata,

merzé del copertoio c’ha cortonese.

La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia

no·ll’adovien per omor’ ch’abbia vecchi,

ma per difetto ch’ella sente al nido.

Piange la madre, c’ha più d’una doglia,

dicendo: «Lassa, che per fichi secchi

messa l’avre’ in casa il conte Guido!».

B. Forese a Dante

L’altra notte mi venn’ una gran tosse,

perch’i’ non avea che tener a dosso;

ma incontanente dì [ed i’] fui mosso

per gir a guadagnar ove che fosse.

Udite la fortuna ove m’adusse:

ch’i’ credetti trovar perle in un bosso

e be’ fiorin’ coniati d’oro rosso,

ed i’ trovai Alaghier tra le fosse

legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome,

se fu di Salamon o d’altro saggio.

Allora mi segna’ verso ’l levante:

e que’ mi disse: «Per amor di Dante,

scio’mi»; ed i’ non potti veder come:

tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio.

Tags: , ,

Lascia il tuo commento

Il tuo indirizzo Email non sarà pubblicato. * Campi richiesti.

*
*

Le parole della poesia

Feed RSS

Iscriviti ai FEED RSS, sarai sempre aggiornato ...

Contatti

Scrivimi
Puoi scrivermi attraverso la pagina dei contatti oppure invia un E-mail a r.mosi@tin.it