IL MITO DI ORFEO
Orfeo (in greco antico: Ὀρφεύς, Orphéus; in latino: Orpheus) è un personaggio della mitologia greca. L’ etimologia viene forse da una radice con un significato di “solitudine”, “privazione”, che ricorre in nomi e termini aventi riferimento agli inferi. Il suo nome è attestato a partire dal VI secolo a.C. Si tratta dell’artista per eccellenza, che dell’arte incarna i valori eterni, ma anche di uno sciamano, capace di incantare animali e di compiere il viaggio dell’anima lungo gli oscuri sentieri della morte. I molteplici temi chiamati in causa dal suo mito - l’amore, l’arte, l’elemento misterico - sono alla base di una fortuna senza pari nella tradizione letteraria, filosofica, musicale, culturale e scultorea dei secoli successivi. Orfeo fu un poeta e cantore vissuto prima di Omero e quindi, al pari di questi, nulla si può affermare con sicurezza intorno alla sua origine. Era figlio di Eagro, re della Tracia, e della musa Calliope (o, secondo altre versioni del mito, di Apollo e di Calliope). Prese parte alla spedizione degli Argonauti, cioè dei guerrieri che, guidati dall’eroe Giasone, a bordo della nave Argo erano andati alla ricerca del “vello d’oro”, custodito da un terribile drago: però non sono state le battaglie e i pericoli di questa impresa che hanno reso famoso il suo nome, ma la musica e l’amore. Le Muse gli avevano insegnato a suonare la lira, ricevuta in dono da Apollo e la sua musica e i suoi versi erano così dolci e affascinanti che l’acqua dei torrenti rallentava la sua corsa, i boschi si muovevano, gli uccelli si commuovevano così tanto che non avevano la forza di volare e cadevano, le ninfe uscivano dalle querce e le belve dalle loro tane per andare ad ascoltarlo.
Secondo Seneca: “cessava il fragore del rapido torrente, e l’acqua fugace, obliosa di proseguire il cammino, perdeva il suo impeto … Le selve inerti si movevano conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi volava, commuovendosi nell’ascoltare il dolce canto, perdeva le forze e cadeva … Le Driadi [ninfe dei boschi], uscendo dalle loro querce, si affrettavano verso il cantore, e perfino le belve accorrevano dalle loro tane al melodioso canto …”.
Il primo riferimento a noi pervenuto sulla figura di Orfeo è nel frammento 17 del lirico greco Ibico vissuto nel VI secolo a.C., nel quale appare già “famoso”. Attorno alla sua figura mitica, capace di incantare persino gli animali, si assesta una tradizione che non gli attribuisce un normale modo di fare musica. C’è un dipinto che racconta la morte di Orfeo secondo il mito che lo vuole ucciso dalle seguaci di Dioniso che, adirato, gli inviò contro le Bassaridi: esse lo dilaniarono e ne gettarono via le membra, ciascuna separatamente. Le Muse poi, riunitele, le seppellirono in un luogo chiamato Lebetra. Secondo le più antiche fonti Orfeo è nativo di quella città in Tracia, terra nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l’esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci tra l’altro di provocare uno stato di trance tramite la musica.
Orfeo fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che lo protegge, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle arti e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso.
La sua fama è legata però soprattutto alla tragica vicenda d’amore che lo vide unito alla Driade Euridice, che era sua moglie. Ma c’era anche Aristeo che la amava perdutamente e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso.
Lacerato dal dolore, scese allora negli inferi con la sua inseparabile lira per riportarla in vita. Raggiunto lo Stige, fu dapprima fermato da Caronte: Orfeo, per oltrepassare il fiume, incantò il traghettatore e, sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell’Ade.
A questo punto l’eroe si trovò così al centro del mondo oscuro, e i demoni si sorpresero nel vederlo. Una volta raggiunta la sala del trono degli Inferi, incontrò Ade e Persefone.
Ovidio racconta nel decimo libro delle Metamorfosi come lui, per addolcirli, diede voce alla lira e al canto. Nel suo discorso affermò che la chiedeva solo in prestito; quando fosse venuta la sua ora anche Euridice sarebbe tornata nell’Ade.
La regina degli inferi, commossa, lasciò che Euridice tornasse sulla terra. Fu posta però una condizione: Orfeo avrebbe dovuto precederla per tutto il cammino fino alla porta dell’Ade senza voltarsi mai all’indietro. “Si prendeva un sentiero in salita attraverso il silenzio, arduo e scuro con una fitta nebbia. I due erano ormai vicini alla superficie terrestre: Orfeo temendo di perderla e preso dal forte desiderio di vederla si voltò ma subito la donna fu risucchiata, malgrado tentasse di afferrargli le mani non afferrò altro che aria sfuggente. Così morì per la seconda volta ma non si lamentò affatto del marito (di cosa avrebbe dovuto lamentarsi se non di essere stata amata così tanto?) e infine gli diede l’estremo saluto.” (Ovidio, Metamorfosi, IV, 53). Esattamente sulla soglia degli Inferi, e credendo di esser già uscito dal Regno dei Morti, non riuscì più a resistere al dubbio e ruppe la promessa del noli respicere, (non guardare) vedendola scomparire all’istante e tornare tra le Tenebre per l’eternità.
Tornato sulla terra, espresse il dolore fino ai limiti delle sue possibilità e, secondo Virgilio, pianse per sette mesi ininterrottamente. Quando le donne dei Ciconi videro che la sua fedeltà nei confronti della moglie morta non si piegava, in preda all’ira e ai culti bacchici cui erano devote, lo fecero a pezzi e ne sparsero i resti per la campagna.
Si narra che la sua testa finì nel fiume Ebro, dove continuò prodigiosamente a cantare, simbolo dell’immortalità dell’arte, scendendo fino al mare e da qui alle rive di Metimna, presso l’isola di Lesbo, dove Febo Apollo la protesse da un serpente che le si era avventato contro.
Il sofista del III secolo Filostrato nell’Eroico (28,8) racconta che quella testa, giunta a Lesbo dopo il delitto commesso dalle donne, stava in una grotta dell’isola e aveva il potere di dare oracoli. Secondo Ovidio Orfeo ritrova Euridice fra le anime pie, e qui potrà guardarla senza più temere.
Un’altra versione, più drammatica e commovente, parte dalle stesse premesse: Euridice muore uccisa da un serpente mentre fugge da Aristeo. Orfeo decide allora di andare a riprenderla. Trova a Cuma la discesa per gli Inferi, e lì giunto incanta Caronte, Cerbero e Persefone. Rapite dalla struggente bellezza del suo canto, le ombre dei morti si fanno intorno all’inatteso visitatore, Cerbero resta con le tre bocche spalancate, i dannati vedono improvvisamente cessare la loro pena. Perfino gli inesorabili signori degli Inferi, Ade e Persefone, ascoltano commossi la preghiera di Orfeo e Ade acconsente a patto che egli non si volti fino a che entrambi non siano usciti dal regno dei morti. Insieme con Hermes (che deve controllare che Orfeo non si volti), si incamminano e cominciano la salita. Così Orfeo inizia la lenta risalita verso la vita, la sposa lo segue alle spalle. Sono ormai vicini all’uscita, già filtrano dall’alto i primi raggi di sole, ma lei, non sapendo del patto, continua a chiamarlo in modo malinconico, pensa che lui non la guardi perché è brutta, invece lui, con grande dolore, deve continuare imperterrito senza voltarsi. Appena vede un po’ di luce capisce di essere uscito dagli Inferi e si volta per eccesso d’amore, per l’irresistibile desiderio di contemplare il volto amato, o per l’ansia di controllare che sia proprio lei a seguirlo, Orfeo si gira e in un attimo tutto perduto: lei scompare, risucchiata per sempre nella voragine infernale.
Quindi, Orfeo ha trasgredito la condizione posta da Ade. Solo ora Euridice capisce e, all’amato, sussurra parole drammatiche e struggenti: «Grazie, amore mio, hai fatto tutto ciò che potevi per salvarmi». Si danno poi la mano, consapevoli che quella sarà l’ultima volta. Drammatica anche la presenza di Hermes che, con volto triste ed espressione compassionevole, la trattiene per una mano, perché ha promesso ad Ade di controllare ed è ciò che deve fare.
Orfeo la vede ora scomparire e si dispera, perché sa che non la vedrà più.
L’addio tra Orfeo ed Euridice è scolpito su un bellissimo bassorilievo nel Museo Archeologico di Napoli.
Euridice è al centro della scena, e poggia la sua mano sinistra sulla spalla di Orfeo, con un gesto pieno di tenerezza e rassegnazione. Ma Orfeo è inconsolabile e con la sua mano tocca la mano di lei, una carezza che è anche un inutile tentativo di trattenerla. Inutile, perché Hermes ha intrecciato il suo braccio al braccio destro di lei, e con dolcezza ma anche con determinazione la trattiene accanto a sé: il suo compito sarà riportarla di nuovo, e stavolta per sempre negli Inferi. Nemmeno una parola, solo la forza dei gesti per rendere il dolore del distacco tra i due innamorati, e la inevitabilità del destino.
Orfeo uscì dal mondo dei morti, ma la sua vita non aveva più significato. Così vagò sul monte Rodope, ormai inconsolabile. Decide allora di non desiderare più nessuna donna. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita a partecipare a un’orgia dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo che porta anche lui alla morte. Quando incontrò le Baccanti, che gli offrivano amore e consolazione, le trattò con sdegno, tanto che esse, per vendetta, in una festa in onore di Dioniso, prese dall’entusiasmo e dall’invasamento dionisiaco, lo uccisero facendolo a pezzi e gettandolo nel fiume Ebro. La testa cadde proprio sulla lira e galleggiando continuò a cantare soavemente. Zeus toccato da questo evento commovente prese la lira e la mise in cielo formando una costellazione: la costellazione della Lira. Secondo quanto afferma Virgilio nel sesto libro dell’Eneide, l’anima di Orfeo venne accolta nei Campi Elisi.
Un’altra antica leggenda recita che la testa di Orfeo ucciso, insieme con la lira, avrebbe raggiunto, trasportata dalle onde del mare, l’isola di Lesbo, e messa in un tempio di Dioniso dava oracoli, mentre la lira era conservata nel tempio di Apollo. La letteratura ellenistica e l’arte figurativa trattarono questo mito sempre più liberamente. Nell’arte moderna il mito di Orfeo fu numerose volte soggetto di quadri e sculture. Tra i primi vanno ricordati alcuni chiaroscuri di Mantegna nella sala degli Sposi nel castello ducale di Mantova (con la punizione di Orfeo, tema che ricorre anche in taluni cassoni nuziali fiorentini), i disegni di Leonardo per le scene della favola di Orfeo che doveva rappresentarsi a Mantova, e poi dipinti di D. Dosso, del Tintoretto, Rubens, Bruegel il giovane, N. Poussin, Corot, Delacroix, i bozzetti di scena e il film di J. Cocteau.
Il mito di Orfeo, nelle letterature moderne, fu celebrato da A. Poliziano nella Favola di Orfeo (1480), da Lope de Vega nella commedia El marido más firme (1625), da Calderón de la Barca ne “El divino Orfeo” (1663). Nel sec. 20° il mito di Orfeo è stato più volte rielaborato da J. Cocteau, nel teatro come nel cinema (Orphée, 1950).
Come per tutti gli altri miti greci altrettanto famosi, anche questo è stato notevolmente rappresentato sia in pittura, che nella scultura e nella letteratura. Diverse rappresentazioni sono state rinvenute anche su vasi di terracotta.
Orfeo è la parola poetica incarnata. È il potere innegabile della parola poetica, capace di intervenire sulla realtà modificandola, creando molteplici, alternative rappresentazioni del mondo.
Uno dei riferimenti letterari più antichi di questo mito si legge nell’Alcesti di Euripide (438 a.C), invece nel finale delle Georgiche (4, 453-527), esso è incastonato, secondo la tecnica alessandrina del «racconto dentro il racconto». L’Orfeo virgiliano non è semplicemente un poeta innamorato, è un poeta che fa dell’amore l’unico tema del suo canto e l’unica ragione della sua vita, ovvero un amante poeta elegiaco. Il confronto tra Orfeo e Aristeo nel finale delle Georgiche diventa discorso sulla poesia e sul modello esistenziale che sostanzia opposte scelte poetiche: il poema didascalico, con il suo impegno civile, e l’elegia d’amore, ripiegata su se stessa e irrelata con la Storia, eppure dotata di un fascino irresistibile. E nel rendere omaggio alla struggente bellezza del nuovo, emergente genere poetico, Virgilio ce ne lascia anche una delle massime realizzazioni.
Quando Ovidio rilegge il mito del poeta che con la malia del canto riesce a riconquistare la sposa perduta e di nuovo la perde per un eccesso d’amore, nelle Metamorfosi (10, 8-85; 11, 1-66), la poesia elegiaca non solo ha ottenuto il riconoscimento di un proprio, autonomo spazio letterario, ma ha anche esaurito la propria stagione produttiva. Se in Virgilio lei reagisce al respicere di Orfeo con parole di amara recriminazione, in Ovidio la donna non dice una parola perché, commenta il narratore, «di nulla avrebbe potuto lamentarsi se non di essere amata». E se il lieto fine è ormai compromesso nel mondo dei vivi, gli amanti si riuniscono agli Inferi, dove Orfeo può voltarsi a guardare la sua Euridice senza perderla mai più.
Con Virgilio e Ovidio la storia d’amore di Orfeo si polarizza su un verbo, respicere, carico di forza evocativa. E il «voltarsi indietro» sarà la chiave di lettura delle numerose rivisitazioni moderne del mito, a partire dal capolavoro di R.M. Rilke, Orfeo. Euridice. Hermes (1904), in cui il cammino di risalita dall’Ade diventa l’occasione per misurare l’abisso che separa la vita e la morte.
Ci sono molti miti e leggende che descrivono il viaggio di un eroe nell’aldilà, lì dove risiedono le anime. Oggi la parola ‘anima’ (soul) è un po’ fuori moda, se non quando utilizzata in modo descrittivo, come nel caso della ‘musica soul’. Anche in questa accezione è possibile scorgere il suo vero significato: la musica soul è una musica autentica, che proviene dalla profondità dell’essere umano, una musica capace di commuovere perché, priva della falsità dell’intelletto, scuote a livello fondamentale ed emotivo, il nostro essere. In effetti oggi spesso per riferirsi all’anima si usa l’espressione ‘sé’ o ‘vero sé’. In questo modo, il viaggio per trovare l’anima è diventato la via per trovare il proprio vero sé. Tra questo genere di storie una delle più grandiose è quella di Orfeo.
Orfeo (traducibile come ‘oscurità’, o ‘senza padre’) ed Euridice (traducibile come ‘profonda giustizia’), che il cantore amava con tutto se stesso, viene morsa da un serpente e muore. A questo punto è necessario fare due osservazioni: la prima è che Euridice è stata uccisa dal morso di un serpente. Perché proprio un serpente? Cosa ricorda il serpente? Si, proprio il Giardino dell’Eden, un altro mito. I serpenti sono il simbolo della conoscenza o della saggezza, ma non in senso positivo, come siamo abituati a comprenderla. L’Albero della conoscenza porta alla rovina, inganna gli uomini facendo loro credere di essere delle divinità, mentre in realtà non lo sono.
La seconda osservazione è: chi è Euridice in fin dei conti? Sua moglie? Sì, in un certo senso, per lui è la persona più bella e adorabile al mondo. Ma, su un piano più profondo, rappresenta l’anima di Orfeo; è l’anima della sua identità maschile, il suo vero amore, la cosa più preziosa secondo le tradizioni spirituali di Oriente e Occidente – la perla più rara.
Cosi Orfeo, dopo aver trovato l’entrata dell’Ade, inizia la lunga discesa. Sulla via affronta molte difficoltà e supera ogni pericolo con la poesia e il canto. Riguardo la sua discesa, ci sono due cose particolarmente degne di nota: la prima è che lui si spinge più in profondità di qualsiasi altro eroe greco, quindi il potere della musica e della poesia si dimostra superiore a tutte le armi fisiche e alla straordinaria forza degli eroi convenzionali.
Sicuramente questa saga era per i greci ancora più antica dell’Iliade e dell’Odissea omeriche: Orfeo era infatti un cantore e talmente belli erano i suoi ‘canti’ da riuscire a ‘piegare’, a ‘commuovere’ anche le belve più feroci. La storia è nota a tutti, m la domanda che ha tormentato, e al contempo affascinato, gli studiosi, nonché tutti noi, da sempre è: perché Orfeo si volta? La risposta più semplicistica sarebbe perché è spinto da ‘curiositas’ ma è anche quella più banale.
Un’altra ipotesi è che Orfeo agisca d’istinto: ad un certo punto non sente più i passi di Euridice e si volta, agendo prima ancora di pensare. Anche questa ipotesi, tuttavia, sembra abbastanza semplicistica.
Andiamo allora con ordine. Prima ancora di domandarci perché Orfeo si volta, chiediamoci se Euridice fosse sempre la stessa.
Lei a questo punto appartiene al regno delle ombre, anche tornando non sarebbe più la stessa, poiché ha assaporato il frutto dei morti.
Forse nell’istante in cui sta per riabbracciare l’amata Orfeo ha bisogno di sapere non tanto che lei sia lì fisicamente ma che ci sia nel suo ‘essere’ come era un tempo, ossia quella che lo sta seguendo è ancora sua moglie? È ancora capace di amare come amano i vivi? E se così non fosse?
In questo caso, sì, la ‘curiositas’ di Orfeo sarebbe condivisibile: forse in quell’istante si rende conto che mai come nella morte il suo amore era stato così forte, mai come in quel momento aveva magnificato Euridice, e quindi ha bisogno che lei rimanga dov’è per continuare a ‘cantare’ quella poesia struggente da cui era ispirato.
Le chiavi interpretative sono ancora tante e l’interrogativo resta aperto. I morti vanno lasciati lì dove sono o no?
Orfeo perde così definitivamente le spoglie mortali di lei, ma mantiene nel cuore, l’Amore che ad essa la legava. Un amore che mai e poi mai sarà profanato dalle vicissitudini umane, e che rappresenta l’Ideale Superiore, che come “Oro” non può essere intaccato dalla furia degli elementi, e che spinge il possessore a indicare anche ad altri tale via.
Tale ineluttabile stato di cose, si riverbera anche nella fine di Orfeo: fatto scempio da parte delle Baccanti che rappresentano la natura inferiore con le proprie pulsioni, compulsioni, desideri, istinti, e violenze, che ci lega a questo mondo, rendendoci concime per la terra stessa.
Esse faranno scempio del suo corpo ma la sua anima sarà libera di fluttuare sulle onde, fino a giungere al mare.
Orfeo ci insegna come attraverso la preghiera, il culto di ciò che è luminoso (la conoscenza), la morte iniziatica (il rifiuto delle profferte delle Baccanti), è possibile essere ammessi nel firmamento e brillare in eterno come astri di luce propria, e non di luce riflessa come tutte le cose transitorie di questo mondo.
Ed è così che quando Euridice muore morsa da un serpente, simbolo dell’elemento terra e delle forze primordiali che animano l’uomo, lui si trova disperato perché si sente perso, si sente vuoto senza di lei e quindi decide di scendere negli inferi per riprendersela.
La discesa negli Inferi è come il passaggio dalla luce verso le tenebre, quindi è non solo l’immergersi nei meandri oscuri e anche distruttivi del proprio essere, ma anche l’affrontare la sofferenza per ricostruire un equilibrio spezzato.
Uniche armi di Orfeo sono musica e canto, capacità connesse comunque ad uno stato di esistenza terreno. Pur scendendo negli inferi, pur morendo a se stesso, una parte del suo io continua a vivere. Alla fine trova la pace solo sublimando il dolore in amore.
In questo la musica e il canto avranno un ruolo fondamentale, metafora di come l’arte sia alla fine un modo per lenire la sofferenza dell’anima prigioniera che cerca la sua parte perduta.
Ricerca sui “Personaggi e i luoghi del mito” fatta da Anna Maria Volpini il 18 marzo 2020