Sabato 6 giugno
Altana Biblioteca Oblate di Firenze
Reading di poesia e prosa “Piccola Antologia Fiorentina”
Scuola di Scrittura Creativa di “Semicerchio”diretta da Francesco Stella
Poesie scelte da Milo de Angelis :
1) Renata Galasso - Venerdì
2) Alessandro Nocchi –Storie cadendo dal letto - Ode al millefoglie
3) Maria Vettori – Addio - Ave I e Ave 2
4) Elisabetta Santini – Sul filo del pozzo - La bambina
5) Miriam Cividalli – Giugno 1943 - La nebbia - Tempo verrà
6) Roberto Mosi – Porta al Prato - Via del carcere
7) Stefano Gidari – Generazione 2014 – Survival Kit - Quotidiana
8) Claudia Muscolino – Farfalle - L’illusionista
9) Marco Simonelli – Il pianto dell’aragosta - Asdrubale
10)Donatella Golini – Mattino - Luce d’aprile – Ferragosto
11)Francesco Mancini – L’assedio - Con la luna fuori dalla finestra +
13)Anna Elvira Balestracci – Inganni - Pomeriggio dei Santi
14)Novella Torre – Per trovarsi ancora – Sui ripiani raccogli – Lo stupefacente quarto di secolo – Di magnifico c’è che non fa male
15)Alberto Befani – All’uscita di scuola - Prove
16)Anna Maria Volpini – Ore 02.26 e Ore 02.40
17)Paolo Sarfatti – Monterosso – La borsa
18)Nicoletta Manetti – In treno per Marradi
19)Paolo Caserta – Trieste
Racconti presentati dai corsisti:
20) Sauro Bartolozzi - L’ULTIMO PALCOSCENICO
21) Alba Avarello – TEMPESTA SULLA SCOGLIERA
22) Gianluca Bologna – ISTANTANEA
23) Lucia De Marinis – IL PALAZZO
24) Caterina Bigazzi – LA CASA DELLE FRAGOLE
25) Eleonora Falchi – MI TROVI NEL MARE
Renata Galasso
Venerdì
Si sente un’orfana
che ha ucciso suo padre:
lui non voleva sentire
non voleva vedere
non voleva parlare.
Era stanca
di tendere l’orecchio
aguzzare lo sguardo
decifrare le labbra.
Dategliene un altro
anche fittizio,
lo prende com’è.
Fissa le mosche invischiate
nella carta moschicida
ali incollate in attesa della fine.
Creature viventi, inconsce
e consenzienti perpetuano la cova.
Farfalle e falene incoscienti
corrono accecate alla fiamma.
Non attendono inerti
i lemmings. Spinti da voci sottili
si gettano nel vuoto.
E lei cova uova di scorpione
nello spacco di un muro rovente
e le guarda in attesa.
Alessandro Nocchi
“Storie cadendo dal letto”
Credo sia notte non so sperare.
Nere, meschine,
concrete paure
sovvertono sogni e destini.
Antiche colpe,
sibilline frasi di freddo dolore.
Nonne prudenti,
dicono ai bambini
silenziose parole.
Cadendo pregano, ma loro sono convinti,
le preghiere combattono paure
dolore e silenzio.
Le delicate storie
piango
ma le voraci ciminiere
non dicono già che ovvie idiozie.
Nel più penoso doloroso incubo
sono caduto.
Piccolo mostruoso sogno
dolente ma passato.
Sollevato dal lontano gesto,
vedo la meraviglia della solita mattina.
Pensando nel letto,
cercando dei sogni più pallidi,
domando
se l’Eterno, solo e dal nome celato,
mortale stato
delle mie tortuose origini
senta dolore.
“Posti, voci e desideri”
Molti sono i segni
per riconoscere la vita
che passa.
Posti dove sei stato,
voci vociate senza che significhino nulla,
desideri espressi e mai esauditi.
Visto la poca memoria
finirò per ricordare quello che sono stato
come ciò che non ho avuto.
“Ode al millefoglie”
Zucchero a velo,
impalpabile
soffice
etereo
bianco candido,
ricopre e
nasconde
il corpo
di pasta
sottile,
fatta da
mille sottili
sfoglie,
che sovrasta
e contiene
l’anima tenera
di dolce crema.
E poi ancora,
e poi di nuovo
gli strati
si alternano
e si confondono
a portare
delizia e gioia
alla mia bocca golosa.
Maria Vettori
A(D)Dio
E alla fine te ne sei andato.
Così, senza sbattere la porta
con un su e giù del cappello sulla testa
e un’alzata di bavero.
Ti sei allontanato senza fretta
chiuso nel tuo paltò con passo elastico.
Ti sei arreso. Visto che ti ho spinto
fin dai miei diciott’anni
verso la porta a passi impercettibili
e visto che a settanta
all’illusione preferisco il nulla.
E che cosa è successo? Niente
proprio niente.
Niente bufere o raffiche o tremori
di terra niente boati o frane.
C’è un’arietta fine invece. Si respira bene.
Va e viene libera la mente.
Un commiato elegante. Ti ringrazio di cuore.
Un tocco di classe. Un’uscita
di scena da vero Signore.
Ave I
Aiutati, *Maria priva di grazia
ora che il Signore non è più con te
e che nessuno il frutto del tuo seno
si sogna di santificare.
Difendilo tu nata dal peccato
e madre di donne a malapena
quel bene cresciuto nel tuo ventre
senza il seme di un uomo né di un dio.
Custodiscilo Maria priva di grazia
gravida di te stessa quel tuo feto
odoroso di frutto proibito
che il nemico geloso fiuta.
Ora e fino all’ora della morte. Amen.
Ave II
Mimetizzati, Maria priva di grazia
ora che il Signore non è più con te.
Rivestiti di penne color sabbia
su questa duna sotto il sole a picco
e attenta alla raggiera di segnetti
che stampi sulla rena
rasente il fiume che spunta tra le canne
e si impantana.
Oppure fatti ago di ginepro
foglia lanceolata
spina di sterpaglia
in questa mattina di giugno
col mare ch’è una tavola
e il cielo quasi bianco nella canicola.
E difendi, Maria priva di grazia
quel tuo bene che nessuno vede
da un nemico che forse non c’è
o forse sbuca di notte dal canneto
per bere al fiume
o forse a mezzogiorno
cala dal sole con il lanciafiamme.
Ora e fino all’ora della morte. Amen
* Maria è Maria Vettori, l’autrice
Elisabetta Santini
Sul filo del pozzo 1975
Come schiaffo dell’aria
quando passa il treno ti rivedo,
le mani rosse, i tendini tesi sottopelle,
la voglia di gioire serrati i denti
nella pronuncia di stupore.
Amare senza imporsi mi dicevi,
ma solo per la danza che il papavero
fa sul grano nelle sere con i grilli
e non mitragliare i giorni
di mirtilli in cerca di vittoria,
per sfida danzare strega intorno al fuoco
o nel groviglio di bambina
che dall’asilo finiva nella polvere del pozzo
a carezzare parole sul filo della luna,
legata a un secchio vuoto
e intorno ai piedi
il pezzo di catena a rappresaglia.
La bambina è rimasta con me.
Non è mai nata…
(Mariangela Gualtieri)
Anch’io ho un grande precipitare
dentro, verso il culmine ora,
e la mia bambina si sveglia di notte
nella cuccia di latte dove è nata
e piange e ride forte fino a scuotermi le spalle,
mi chiede udienza e fa i capricci
per sentirmi avvolta nel suo mantello
di stupore. Troppo ho perso di tempo, di calore
per non ascoltare i bisbigli
che affioravano dalla tazza di latte mai bevuto.
Sono qui che le dedico corpo di me ferito
e non salvato,
cosa penserà di me, del mio ardore
già andato, senza la trafittura di farfalla
che a tatuaggio antico avevo sulla spalla
un bacio deposto nell’incavo della mano
a me che ostinata non faccio
che guardarla, prosciugata di parole
da questa ferita infeconda che mi porto.
Bagnami dell’infinita dolcezza
delle voci bambine quando toccano il sole
bambina mia non nata, mio me
rannicchiata nel mio albero d’ossa.
Senti arrivare lo scontento,
ti porto il contagio rovesciato
nel nome mio di donna, ma infissa nei desideri
ci sei, sintassi originaria
legata alle cinghie della terra,
madre mia, pianeta,
ho la tua fronte tra le mani, io tua zolla
e tu nucleo pensante, radiante fino al mio.
Riposami. E’ giunta l’ora
di unirsi in nozze
e respirare insieme. Declinata. Una.
Miriam Cividall
i
Giugno 1943
I campi intorno
sonnolenti. Le cicale.
Le persiane chiuse
degli adulti in siesta.
All’ombra, pigra,
dondola l’altalena.
Un ronzio. Nel riverbero
visibili appena,
in sciame, le frecce
seminatrici di morte.
La nebbia
Va e viene, la nebbia.
Attorno ai pensieri
si avvolge, uno squillo
la strappa, una voce.
Nella nebbia, cantilene
volti, lampi d’infanzia.
Sottovoce ritrovata
la poesia a memoria.
Sommersi, scavano
pensieri di morte.
Tempo verrà
L’ho sentito. Presente
conforto a infondermi.
E lo avevo sepolto.
Cellule e sinapsi
coscienza e amore
lenti a sciogliersi.
Viva voglio morire
su di voi resistere.
Roberto Mosi
Porta al Prato
Vola in grandi cerchi l’aeroplano di carta
lanciato dalla terrazza,
un foglio ripiegato, con i versi
della poesia, un colpo di vento
solleva il muso in alto, in alto,
Marta batte le mani, ride felice.
L’aeroplano d’acciaio arriva improvviso,
il rumore squassa la corte,
trema la casa: “Nonna valigia”
un grido, poi le bombe
sulle officine di Porta al Prato.
Sull’asfalto della strada plana
l’aeroplano di carta, lo raccoglie
un ragazzo, legge i versi stupito:
“Vola in grandi cerchi l’aeroplano di carta
lanciato dalla terrazza,
un foglio ripiegato, con i versi
della poesia, un colpo di vento
solleva il muso in alto, in alto,
Marta batte le mani, ride felice.”
—
Roberto Mosi, Florentia, Gazebo Libri, Firenze 2008, pag. 26
La via del Carcere
Segna il nostro passaggio
il rumore dei chiavistelli
delle grandi porte di ferro.
La luce è quella degli sguardi
che si incrociano, interrogano,
prendono le misure dell’altro.
Il calore è nella voce di Paola,
al centro del refettorio canta
accompagnata dalla chitarra.
La bellezza nel volto delle ragazze
piovute da mondi lontani
che battono lievi le mani.
La visita ha il colore della musica.
—
Roberto Mosi, Florentia, Gazebo Libri, Firenze 2008, pag. 35
Stefano Gidari
Generazione 2014
Si muovono a gruppi, folti e compatti
ragazzi bui dallo sguardo di vetro
avanzare in schiera a passi ridotti:
labbra taglienti, ridere tetro
bieco stralinco bizzoso altero
scippa al tempo sommessi avanzi.
Survival kit
Trovarsi uno spazio adatto, fra due pieghe fragili,
di soppiatto.
Quotidiana
Sbatte una porta, si abbatte
il silenzio e si sente, dalla strada,
da una finestra aperta,
fuori, solo ruzzolio di foglie.
Un gatto all’erta rincorre il groviglio.
Claudia Muscolino
Retrospettiva
Farfalle di metallo incatenate
all’intonaco nuovo, poi
la camera, lo specchio.
Ancora qualcosa
il futuro di ciò che c’era stato.
Forse era l’argilla che ferivi
sul lenzuolo chiaro,
forse era il sangue che fuggiva tra le mani.
Volava la sabbia di cristallo
sui tuoi libri.
L’illusionista
Fammi i tuoi giochi di prestigio.
Fai apparire il coniglio e la colomba
dal cappello.
Fai volare in aria le tue carte,
raddoppia i veli, ruota il bastone.
Non sarò più
la donna
da tagliare in due.
Marco Simonelli
Asdrubale
Avresti fritto pure una ciabatta:
sarebbe stata asciutta
croccante calda e friabile
come i tuoi fiori di zucca.
Le tue mani significano cibo
le osservo attentamente quando posso
sono piccole, vecchie, farcite dalle rughe
mentre mescolano il manzo macinato
con l’aglio col formaggio e il pangrattato
e aggiungono un ciuffo di prezzemolo tritato.
Asdrubale passava al pianerottolo
gatto vecchio, lentissimo ed obeso:
un occhio cavo perso in una lotta
e un tumore in vista alla mascella.
Non sempre ci riusciva, quella bestia
a scendere le scale e farla nel cortile.
Un giorno lo trovarono nel prato
sembrava addormentato, poverino
aveva terminato l’agonia tutto da solo
non voleva lo sentissero nel rantolo;
la morte per i gatti è un fatto personale
se ne voleva andare senza disturbare.
Gli preparasti apposta una polpetta
friggendola con spugna naturale.
Lui ti leccò le dita, forse a ringraziarti
di quel boccone buono, offerta dell’addio.
Faresti lo stesso con me
se al suo posto ci fossi io.
Il pianto dell’aragosta
L’aragosta va bollita viva.
Stordita dall’ossigeno boccheggia
sul marmo di cucina.
Oscillano le antenne e dalla cappa
la luce le proietta in ombre lunghe,
due lance un tempo organi
di senso e di difesa.
Teoricamente si può anche
ucciderla con una coltellata:
assesti un colpo secco,
la lama deve entrare nella testa,
però bisogna essere precisi
è facile che soffra anche di più.
Si dice che al contatto con la morte
emetta un grido, strilli,
un pianto disperato, stile supplica.
Ma si tratta solamente del vapore
che schizza, fuoco fatuo
fra polpa e carapace.
Donatella Golini
Mattino Aprire la finestra sulle quinte dei vigili cipressi a settentrione inatteso ti investe come un vento dei passeri eccitato il parlottare. Si chiamano con voci d’allegria quasi stupisse ritrovare il giorno sentirsi ancora vivi tutti insieme nel fragile armistizio del mattino. Forse dei sogni rotti dal risveglio raccontano le voci degli uccelli forse un sollievo di sopravvissuti al buio freddo, a un cielo così incerto.
Ferragosto Solo il mattino nella casa vuota un placato silenzio di festa vento scortese entra a scompigliare fogli pensosi di cancellature. Trascurato il giardino rammenta il sentore dei tigli sfioriti un riverbero stinge nei rami delle voci perdute bambine. Fra le macchie salire nel bosco a cercare le more pungenti per sporcare di rosso la bocca come ancora ci fossero baci.
Luce d’aprile Eppure basta per volere essere nata la punta di un cipresso a strofinare questo cielo redento, schizzi di luce su vertebre di olivi e nel rabbrividire del mattino creature risolute nei cespugli a rinnovare un canto senza resa. E insieme a loro credere al tepore che ci affidi ancora vivi al limite del giorno.
Francesco Mancini
Assedio
E ti ricordi come sfuggivamo ai fantasmi
ai lettori di carte, alle astrologhe
alle mie divinazioni fatte con le monetine
alle megere,
agli uomini in fila che volevano farsi tutti te
dall’Ade
io avevo tre puttane grasse sdentate
nei miei incubi di sbatacchiato a riva
sembravano anni ’30 dai vestititi, ridevano e ci irridevano
l’assatanate
sganasciando i muri della psiche mia
soprassaltata
mezza rottamata l’anima nostra, l’hai notata?
Infatti poi le sognavi anche te,
l’archetipe bagasce sganasciate
le calze color calze sbiadite
smagliate
più ancora le carni di ricotta arrotolate dentro
butterate
“mollalo, quello, che è uscita fuori la carta dei bastoni mischiati alle spade addosso alla papessa arrovesciata! Non le vedi quante quadrature nei pianeti?”
Il nostro amore, più forte, stritolava i segni
dirompeva i sogni
giù dai dirupi, schivando i lupi
i cupi
(i graffi sulle tue gambe splendevano)
Eppure più eravamo lesti
più l’assedio era multiforme, un coro euripideo si prodigava senza posa per avvertirci
bloccarci.
Forse quell’amore era una bestemmia
(invidiosi, i secchi, della nostra vendemmia)
O forse i piani alti
ci chiedevano il sacrificio di Isacco
Noi tremanti col coltello in mano
la folla che incitava, schiumante
nessuno poi ci ha bloccati
Nessuno
Nessuno
Nessuno
ci ha detto: “Ferma la tua mano”.
Con la luna fuori dalla finestra
Dea era Dea davvero, le metafore son solo vostre, le dissi: “Ho fatto l’amore con una Dea.”
Diventò una belva -forse neppure lei lo doveva sapere…
Risentita, da sopra di me s’artigliò al mio petto
mi guardò al titanio
Sfinge sumera, nume pronto a scavarmi il petto con gioia primitiva di bambina
“Dai, allora fallo!” la pregavo con gli occhi, la pregavo per scricchiolamento delle fibre ottiche, che non ero attrezzato per una gioia così estesa, l’Eden dopo la caduta ci slogava le ossa come sulla croce a Cristo.
“Ammazzami ora”.
M’ammazzò
Davvero.
Anna Elvira Balestracci
Pomeriggio dei Santi
Pioverà, hanno detto.
Ma il tramonto imminente
strappa a tratti le nuvole.
Sarà tregua prima di notte.
Pini cingono il declivio
di San Miniato. Sul bastione
l’ombra rada di un tiglio.
Guardo le mie mani
segnate dai giorni.
Un cane giovane, nero
annusa il vento, si azzuffa
con un compagno fulvo
tra fughe e falsi assalti.
Nei tuoi occhi l’invito
alla pazza sarabanda.
Ma urge la ricerca del tesoro:
gialle bacche, due pigne, un sasso
rossastro, ghiande di leccio, cortecce.
Linda mi siede accanto. Le guance
accese in un dialogo fitto
- cerchio che ci racchiude e sazia –
in quest’aria sospesa.
Inganni
Forse ricordi quel giorno di novembre:
insolito tepore,una sorpresa.
Il paese alle spalle, la strada
un nastro tortuoso, stretto
nella valle che dispiega le asprezze
della roccia scistosa, rossastra.
La “tëciarussa”* incornicia le curve
cede a tratti, di malavoglia,
a fantasmi di acacie e castagni
intrappolati da filacci di nebbia.
Parole distratte. A mezza voce
insieme,una canzone francese
che sa di foglie morte.
E all’improvviso li vedo:
fitti, di un bianco rarefatto.
Una fiorita di ciliegi tardivi?
Non è tempo di favole o miracoli.
Le vitalbe, certo.
di ariosi ciuffi il loro abbraccio cinge
rami nudi, contorti.
Petali e lingue di semi disseccati
fioriscono in un gioco di fata morgana:
metafore di insospettati inganni.
Nel tuo profilo uno spicchio di sorriso.
* Dialetto dell’Alta Lunigiana: “cengia (sporgenza della roccia) rossa”
Novella Torre
Per trovarsi ancora occorre perdersi
l’ombra, lo spessore della pelle
camminare sulle rive di un lago
buio come la tua casa. Sei certo? Forse
non hai capito quanto poco
costo, quanto vale la distanza
Per i pochi minuti spesi a stringere
i nervi delle braccia come rami
a guardare gli occhi tristi della pioggia
ci è scorso accanto un anno come un fiume
si colma trabocca si dissecca
Non siamo fatti dello stesso pane
l’infinito ci riguarda come una minaccia
Sui ripiani raccogli utensili
semi e dispense che ti nutrono,
quando io vengo a mancare.
Dentro nascondi anche qualcosa
di nero, di sbarrato: il contenuto
di una soffitta minaccia di spalancarti
come un guscio. Chiusa in una cassa
tra il rumore e la ruggine, gratto il fondo
Ma niente negli angoli
che ci separano se non la carta
e la plastica dei nostri involucri.
Chiudimi. Tu non sei ancora
memoria, io non posso contenerti
Lo stupefacente quarto di secolo
in cui si è vista cadere altra pioggia,
si è mangiato visto e vissuto
a crepapelle segnando le tacche
sul muro e i piloni dei km trascorsi
ciò che poteva si è perduto
ed impegnato il resto – che resta
da spiegare di quell’altro quarto
dell’ora sconvolgente sterile in cui
il vivere passò di dimensione, e ancora
ci si chiede come si sia potuto come
si possa contare qualcos’altro
come passi un minuto e l’altro dopo
Di magnifico c’è che non fa male
non aver nulla da dirsi
e risulta credibile, perché
alcune cose avvengono così
nel personaggio, per evaporazione
ma mi hanno chiesto
di raccontarmi – e vale sette –
i riflessi verdi del neon
su madreperla: in un momento
culminante.
E allora in esso
quel che c’è di strano
non è ignorare ciò
che non si conosce, è non saper
parlare di ciò che è nostro,
il non poter descrivere
niente che si abbia
sotto gli occhi
o nel cuore.
Alberto Befani
“All’ uscita di scuola”
( febbraio 2014)
Eppure sapeva che c’era.
Riusciva a vederlo ogni giorno
all’uscita di scuola.
Adesso si vede da solo
non trova nessuno
all’uscita di scuola.
Alla sera si muove,
ancora non corre, su tracce più nuove
all’uscita di scuola.
Non si è più ritrovato com’era
ma certo cammina
all’uscita di scuola.
“Prove”
(agosto 2014)
E’ giunta adesso notizia
che un po’ del suo tempo è rimasto
infilato tra foto marroni
e carte di vecchie partite.
C’è sempre qualcosa di lui
in un certo biglietto di andata,
perduto- appare- il ritorno.
E dentro un amore scaduto
rimosso dallo scaffale.
Sono voci di nuove partenze
tentate, qualcuno rimane stupito.
Qualcuno offre ancora un passaggio.
Mani sospingono i passi
verso altre caselle del gioco.
Anna Maria Volpini
L’ora dell’appuntamento
Muore giovane
colui che al cielo è caro
Menandro
ore 02.26
cos’è quella folla che mi segue?
che mi circonda? che mi aggredisce?
sono preda - vittima - facile bersaglio?
uscite uscite sono tutti in fila i mostri
girano nella giostra cavallini di cartapesta
allenati nel caravanserraglio
nessun evento è salvo girò la ruota della sorte
ci fu chi gridò perché colpito al fianco
chi si straniò non rimase colpito
una bocca si chiuse ( era d’autunno
il tempo sapeva di vino e di castagne)
la mia si aprì nel buio
da dentro mangiarono a morsi
a morsi staccarono quelle mani tese
senza paura - a morsi si difese l’anima
quante spesse coperte per coprirsi?
sarà più freddo del fragore il lampo
di quella luce che d’improvviso mi accecò?
ore 02.30
arrivano in tanti come pesci
chiamati dai miei pensieri
intorno ad un’esca troppo invitante
attraversano ponti sospesi da tiranti d’oro
la loro trasparenza non fa ombra
(che sia la mia pazzia più trasparente?)
portano come insegne tante croci
quelle che non sappiamo sopportare
(anche la mia appesa al collo è pesante)
il tempo che li manda non li riprende
sono l’altro di me stanno con me
sono il tramite nascosto
di ben costruiti piani
arrivi anche tu
pellegrino diretto al mio santuario
riconosco il tuo volto
la tua voce è questa cantilena
che non fa rumore
pare di nuovo mi si strappi il ventre
due volte nasci
ti perdo due volte
io ti sfoglio piano
a qualunque ora
come sfogliassi un libro di preghiere
le lettere furono scritte col sangue dell’agonia
leggo forse le preghiere dei morti
io che ancora vivo?
ore 02.36
perché mi chiamano
dentro questa abbaglianza
che si accende e gioisce
di una sua bellezza non passeggera
tra riflessi di fuochi e miraggi
che sovrastano
l’orizzonte contro vento?
chi mi chiama in questa storia di luce
vuole forse farmi esplorare il paradiso?
ore 02.40
ascoltaci
dove noi andiamo non c’è spazio
che ci confina
ci piega ci ferma il movimento.
Come nel sonno
tutto si contrae si allenta o si concentra.
Ciò che ci passa accanto
non ci illude né ci addolora
è legato e sciolto
prima di ogni inizio
non torniamo
non possiamo tornare
siamo cambiati in altra forma
in altra sostanza
ma ci parliamo ancora
con un nostro misterioso linguaggio
andare? tornare?
ore 02.40
ci separarono troppo in fretta
non eravamo preparati alla partenza
chi ti strappò dalle mie braccia
forse ti gettò nel buio e
ti appese come una caramella succhiata
cui si è tolto il gusto
e la carta colorata che la ricopre.
Lì aspetti senza fretta
nascondendo ogni tuo pensiero
come un obolo che non devi più dare
la mia mano ha scritto il mio nome
sulle tue ciglia chiuse sopra
il tuo ultimo splendore anche se non avevi
la corona del re (la tua era di carta leggera
senza peso senza colore)
ma tu mi hai scritto nell’anima
il codice della tua vibrazione
ch’io possa ritrovarti
alla fine del mio tempo
Paolo Sarfatti
La borsa strappata
Frammenti,sparsi nella mia borsa.
Un cellulare annoiato, una penna distratta,
un’agenda inquieta in attesa.
Oggetti, rinchiusi come conchiglie
nella sabbia del tempo.
Un pescatore soltanto
poteva afferrarle
con i suoi piedi tristi
scavati, immersi
nel buio del mare.
Una stazione affollata
piena di gente nella mia borsa.
Le parole,partite
con un saluto alle torri lontane.
Viaggiatrici, attraverso gli oceani
Sempre tornate
nella mia borsa
stanche avvolte deluse
nella sciarpa di seta.
Il mio cuore, disertore inquieto
le aveva aspettate.
Nell’attesa il mio ventre
cresciuto, e ancora cresceva.
Fecondato da uno sperma di fiori
e profumi e dolori
cresceva.
Lievitava il mio cuore, e strappava la borsa
le parole fuggivano lasciando la seta.
Cercavano senso, e il mio ventre cresciuto
cresceva.
Non più conchiglie racchiuse nel buio sabbioso,
pescate in un silenzio rabbioso. Il mare, improvviso
cantava l’attesa.
Monterosso
Soffia il maestrale sui versi
Accarezzano i campi all’ombra di olivi
Si tuffano nei viottoli e muri
custodi insicuri di schegge di terra.
Dal fianco gli appare la spiaggia
piazza chiassosa di sabbia e colori.
Corrono leggeri sull’onda
di barche paziente maestra di danza.
Ascoltano il fischio del treno
tra gli oleandri e le palme
portando a riva bagnanti impazienti
sotto sguardi distratti dei gatti randagi.
Entrano nel presepe di case
si guardano in faccia al rosone ed i portici.
Effluvi di spezie e bagliori di antichi mestieri
accolgono intriganti i passi curiosi.
Siedono stanchi sulla panchina
riposano al canto delle pietre di Aurora
studio di posa per scatti serali
davanti al sole che beve nell’acqua
Scrutano attenti la notte
alla ricerca di un grembo materno
sotto il profilo di sasso dei monti
le labbra socchiuse sul finire del mare.
Nicoletta Manetti
In treno per Marradi
Fuggono i diosperi rossi e
le foglie rugginose delle vigne.
Nelle gallerie oggi c’è luce
non come allora.
Non dormivo la notte prima
di partire, già negli occhi il terrore
di quel nero.
Ma lei mi stringeva al suo cappotto
color cipolla, il suo cappotto buono
e Madamadorè mi consolava
la guancia torturata dalla stoffa.
Ecco Biforco, vicino al cimitero
laggiù in basso, quella era la casa,
l’orto sul fiume e un gracidar di rane.
Quel giorno per ore mi nascosi
tra la lamiera del pollaio e il lavatoio
l’orecchio teso e il respiro grosso
non riconobbi la mia prima sfida
immobile restavo elettrizzata
tra le foglie grandi delle zucche.
Per me fu gioco, per lei fu la paura
e non capii perché dopo piangeva.
Oggi non scendo qui, proseguo.
Lascio là in fondo borbottare il fiume
ma sento scivolarmi le caviglie
nell’acqua gelida lucida di sasso.
Un uomo alza la testa dal giornale
grazie, tutto bene, gli sorrido
mentre sento più dolce l’arrivo
del tramonto.
Lentamente intanto mi preparo
per scendere alla prossima fermata.
Paolo Caserta
Poesia a Trieste
Sul molo di Trieste una donna
respira fra sé e sé,
fra voce e pelle,
forse dei versi
Guarda azzurro il mare
un gabbiano
e n’ode l’acre richiamo
dolente.
Batte il sole sul bianco marmo
su pietra di selce e su mare.
La donna finisce il suo mormorio
marino forse d’amore.
Scrive sul quaderno
nuove parole. Lo chiude.
Nell’attimo, si alza
solleva leggero
foglio, lo sguardo
il viso.
Si allontana, la sua lingua
forse tedesca.